“Racconti Fotografici” Numero 57: intervista ad Davide Lena

Bentornati a “Racconti Fotografici” eccoci alla 57° edizione , oggi intervistiamo il fotografo Davide Lena , buona lettura.

Ti puoi presentare per gli amici che ancora non ti conoscono ?

Mi chiamo Davide Lena, sono nato e cresciuto a Roma e nel 2018 compirò 40 anni.
Lavoro nel campo dell’informatica ma da qualche anno ho capito che la mia vera passione ha a che fare con la fotografia di viaggio e paesaggio, per questo motivo sto impegnando tutte le mie risorse per cercare di cambiare il mio lavoro e, di conseguenza, la mia vita.

 

Da piccolo cosa sognavi di fare?
In realtà non me lo ricordo, forse il pilota di F1, o il pilota di aerei, sicuramente non l’impiegato.

 

La prima foto che hai scattato?
La prima in assoluto non me la ricordo, perché le facevo tanto per fare con una compatta. Mi ricordo invece la prima fotografia “ragionata”, nell’agosto del 2006. Era un semplice orologio su un tavolo di legno ma con una luce rembrandt proveniente da una lampada, ammorbidita con della carta forno per alleggerire le ombre. In quel momento ho cominciato a capire la differenza tra una fotografia fatta in automatico e una fotografia voluta, progettata.

 

Quali sono i fotografi a cui ti ispiri e perchè?
Mi piace molto lo stile di Elia Locardi, e quello di Daniel Kordan. Oltre alla qualità delle immagini mi piace il fatto che girino il mondo alla ricerca della luce migliore in posti stupendi, durante viaggi fantastici. L’ispirazione deriva proprio dal fatto che fanno quello che piace fare a me, viaggiare e fotografare.

 

Cosa non è per te la fotografia?
Non è dimostrare di essere bravi, non è far vedere di essere superiori agli altri. Vedo tanta invidia tra “colleghi”, vedo gente che non apprezza delle fotografie oggettivamente belle solo perché sono state fatte da un “concorrente”, solo per non dargli soddisfazione. Non è una gara, una competizione, c’è posto per tutti.

 

Qual è la sfida di ogni scatto?
Cercare di registrare la sensazione che ho in quel determinato posto, e in quel determinato momento. Non la realtà, quella non mi interessa, la lascio alla Polizia Scientifica, a me interessa emozionarmi ed emozionare. Con questo non voglio promuovere il pesante uso della post produzione, anzi, cerco di stare meno tempo possibile al PC perché mi da troppa soddisfazione vedere lo scatto quasi pronto direttamente in macchina. E’ per questo motivo che se trovo un luogo con del potenziale cerco di tornarci più volte per cercare la luce che più si avvicina a quello che immagino.

 

Che cos’è la curiosità?
E’ quella cosa che mi spinge ad andare un po’ più in là del classico punto di ripresa, a scavalcare un muretto, a percorrere la strada più lunga, a fare cose che vanno di poco oltre la prudenza. L’idea di avere un’immagine particolare mi eccita.

 

Chi o cosa ti piacerebbe fotografare?
Il pianeta, il mio pianeta. Mi piacerebbe andare in posti estremi, partecipare a spedizioni “ai confini del mondo”, andare dove potrei avere la possibilità di fotografare qualcosa di ancora poco conosciuto.

 

Qual è il tuo prossimo progetto?
Partirò tra 3 giorni per il Canada occidentale, un viaggio fotografico “into the wild” dove vorrò vedere quasi esclusivamente la parte naturalistica di quella parte di mondo, le Montagne Rocciose, i laghi color turchese, la maestosità degli ampi spazi incontaminati, il silenzio.

 

Quali tappe hai attraversato per diventare il fotografo che sei oggi?
Ho iniziato anche io, come più o meno tutti, fotografando qualsiasi cosa, dalle macro ai ritratti. Poi però ho cominciato a capire che le immagini che più mi davano soddisfazione erano quelle che registravo durante i viaggi, non le fotografie della vacanze ma proprio dei viaggi. Come conseguenza di questa consapevolezza ho cominciato a pensare ai viaggi esclusivamente dal punto di vista fotografico, sia come pianificazione che come organizzazione. Tutto ruota attorno all’obiettivo di tornare a casa con un diario di viaggio fotografico il più evocativo possibile, sia per me ma anche per gli altri che poi vorranno vedere le mie immagini.

 

Che difficoltà hai incontrato lungo il tuo percorso?
La difficoltà più grande, soprattutto in Italia, è appunto cercare di convertire questa passione in lavoro. Trattandosi di un genere poco “vendibile” è veramente complicato, come sempre occorre il giusto mix tra talento/fortuna/conoscenze.

 

Quali esperienze decisive hai avuto nell’ambito fotografico?
La prima esperienza che mi ha fatto capire di essere sulla giusta strada è stata nel 2011, quando con le fotografie del mio primo viaggio a Tokyo ho vinto il concorso sulla fotografia di viaggio di National Geographic Italia. Da quel momento ho cominciato a capire che il mio lavoro non era solamente bello per me e per i miei conoscenti ma anche per gli addetti ai lavori in quello specifico campo.
L’ultima, grandissima, soddisfazione è venuta dagli USA invece, quando National Geographic USA ha comprato la mia fotografia più progettata, più voluta, più studiata fino a quel momento. L’incredibile gratificazione di vederla pubblicata in doppia pagina sulla rivista più importante del mondo, in tutte le edizioni del mondo, è stata così grande che anche oggi a ripensarci provo una strana sensazione di benessere.

 

Che cosa è necessario per poter cogliere l’attimo giusto?
Nella fotografia di paesaggio la progettualità, cercare di trovarsi all’orario giusto con le condizioni di meteo giuste per ottenere quello che si è prefissato, altrimenti riprovare, anche a distanza di anni. Nella fotografia di viaggio invece è necessario essere sempre pronti, osservare quello che succede intorno, cambiare strada, non aver paura di scattare o di provare la classica “vergogna” nell’essere visti.

 

Che rapporto cerchi di instaurare con le persone/soggetti che vuoi ritrarre?
Nessuno. Con le persone nessun rapporto, cerco di essere invisibile, di non influenzare in nessun modo il comportamento di chi inevitabilmente si sente osservato dopo essere stato puntato da un obiettivo fotografico. Per quanto riguarda i paesaggi invece vado lì ore prima, a volte faccio dei sopralluoghi senza macchina giorni prima. Questo mi permette di capire meglio il posto. A volte sto 5-6 ore in attesa del tramonto e durante quel tempo, da solo, ho la possibilità di vedere cosa succede in quel luogo, senza fretta, senza pressioni.

 

Cosa ha influenzato il tuo stile?
Il cinema. Adoro il cinema. Le inquadrature, la luce, i movimenti macchina. Tutto questo inevitabilmente influenza la mia visione della realtà. Il cinema è un’arte visiva meravigliosa.

 

Quali sono i problemi che riscontri oggi nel fotografare?
Forse il copyright e la privacy. Sono normative giuste, lecite, ma spesso sono esasperate e impediscono la realizzazione di fotografie dal forte potere documentativo.

 

Ci racconti un tuo aneddoto particolare o simpatico?
In Giappone, ero lì per realizzare lo scatto che poi ha comprato National Geographic USA. Mi trovavo in un paese lontano dalle grandi città, poco turistico, in bassa stagione e con persone non abituate a vedere occidentali zaino in spalla. Come sempre dopo aver fatto un sopralluogo scelgo con largo anticipo dove posizionare il treppiedi, sia per garantirmi il posto migliore (se dovessero presentarsi altri fotografi) e sia per farmi trovare pronto dalla luce. Da quel momento in poi sono stato fermato in continuazione da persone del posto che mi chiedevano una fotografia, da dove venissi o altro. In particolare sono stato a chiacchierare più di mezz’ora con un vecchietto che abitava lì, in giapponese, solo che io non conosco il giapponese, ma lui continuava ad oltranza, e mi sembrava brutto non fare finta di essere interessato.

 

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