“Racconti Fotografici” Numero 191: intervista a Giovanni Giuliani

Bentornati a “Racconti Fotografici” eccoci alla 191° edizione , oggi intervistiamo il fotografo Giovanni Giuliani, buona lettura.

Ti puoi presentare per gli amici che ancora non ti conoscono?

Ciao a tutti, sono Giovanni Giuliani e questo è un breve racconto di me. La fotografia rappresenta per me una grande passione, anzi, la mia più grande passione. Fa parte di me fin da quando ero piccolo. Mi ricordo ancora quando da bambino e di nascosto prendevo la macchina fotografica di mio papà e provavo a fare qualche scatto. Poi vinsi un concorso fotografico, ma la mia era ancora una fotografia fatta solamente di istinto senza alcuna conoscenza tecnica. Il mio primo lavoro mi permise di entrare nella fotografia studiata, mi occupavo di microfilm e li ho iniziato a studiarla seriamente. Da allora lo studio e la pratica non mi hanno più abbandonato.

 

Da piccolo cosa sognavi di fare?

Da piccolo sognavo di fare… non lo so, io soprattutto sognavo. Non avevo idee chiarissime, ma la mia mente era comunque inconsapevolmente orientata alle immagini. Mi vedevo soprattutto pilota di aerei, non per il tipo di mestiere ma per il cielo blu, le nuvole bianche e i paesaggi che sognavo di vedere dall’alto.

 

La prima foto che hai scattato?

La prima vera foto che ho scattato e che mi ha lasciato un minimo di soddisfazione è stata una foto istintiva, assolutamente senza alcuna cognizione tecnica o capacità di usare il mezzo. Era una foto della Torre del Mangia, a Siena. Io camminavo in un vicolo stretto, buio, e lì in fondo mi apparve la Torre: era perfettamente illuminata dal sole del tramonto. Senza pensarci mi misi al centro del vicolo, perché qualche mese prima a scuola mi avevano insegnato e avevo studiato la prospettiva ad uno e due punti. Facevo la prima media e con quella foto vinsi il mio primo concorso fotografico.

 

Quali sono i fotografi a cui ti ispiri e perché?

Non mi ispiro a nessuno. Non sono le persone, o meglio il loro nome e cognome ad ispirarmi, ma ciò che fanno. Quindi mi ispiro a singole foto che mi colpiscono, che solleticano il mio immaginario, che mi affascinano, che mi stupiscono o mi infastidiscono. Faccio così ad esempio anche con la musica. Non ascolto un musicista perché è lui. Io ascolto il brano, è quello che mi piace. Semplificando il più possibile, mi ispiro alla foto, a quello ce c’è dentro, non a chi l’ha scattata.

 

Cosa è per te la fotografia?

Per me è un linguaggio di comunicazione, primordiale, brutale, semplice ma efficiente ed efficace. È un linguaggio al quale non puoi sottrarti mai. Non puoi scegliere di smettere di guardare una foto solo perché’ non ti piace. Nel momento che l’hai guardata ti ha già parlato. E continuerà a farlo. È anche un modo per me di riuscire a dire quello che non riesco a fare con le parole. È un portare fuori il mio stato d’animo, il mio modo di vedere le cose che mi circondano e le persone con le quali interagisco o non interagisco. Mi permette di raccontare le persone che non conosco, mi permette di studiare l’animo umano senza dover parlare con nessuno.

 

Cosa non è per te la fotografia?

La fotografia NON è non accettare le critiche. Anche crudeli, io le voglio conoscere per trasformale comunque in insegnamento costruttivo. NON è pretendere solo complimenti. Non è scattare a caso senza nessuna osservazione o senso anche interiore. Non è giustificare qualsiasi errore con la parola arte.

 

Qual è la sfida di ogni scatto?

Riuscire a “parlare” meglio. Visto che per me è un linguaggio cerco di farlo sempre meglio. E poi sono dell’idea che non si finisce mai di imparare quindi ogni scatto è fatto dalla conoscenza che ho dentro, dell’esperienza che ho acquisito nel tempo, dagli errori precedentemente fatti e dagli errori che non ho ancora fatto.

 

Che cos’è la curiosità`?

È alla base della vita e del mio modo di vivere. Devo cercare di capire qualsiasi cosa, devo cercare di vedere qualsiasi cosa, osservarla, comprenderne il funzionamento, le emozioni, gli stati d’animo. i caratteri… Nella fotografia poi senza curiosità non andrei alla ricerca ad esempio dei motivi ricorrenti negli scatti di architettura, non mi spingerei a studiare ore per capire in quale punto e momento del passaggio di un aereo scatterò la mia foto, non passerei tempo a studiare il tracciato e le postazioni di un circuito per sapere prima dove posizionarmi, quali movimenti farà la monoposto che vorrò fotografare come mi immagino di voler fare. Non mi divertirei tantissimo a praticare la street photography. Non avrei sempre voglia di confrontarmi con gli altri.

 

Chi o cosa ti piacerebbe fotografare?

Beh, sono attratto dalle persone e dall’ambiente in cui si vive. Però senza conoscerle prima. Ecco, la sfida di capire e comprendere una persona con la quale non ho mai parlato se non nel momento della foto oppure con la quale probabilmente non parlerò mai è una sfida che accetto sempre volentieri. Una foto che desidererei fare ma che non farò mai? Si, la Terra ripresa dalla Luna o dallo Spazio.

 

Qual è il tuo prossimo progetto?

Beh, devo dire che il Covid ha un po’ stravolto i miei progetti quotidiani. Mi ha permesso però di capire che devo dedicarmi di più alla MIA fotografia e non solo alla fotografia. Ho appena realizzato il mio primo libro e ne ho già in cantiere un secondo oltre a continuare con la fotografia sportiva per la Formula-E, per il Nuoto e la Fotografia di Moda con la Fashion Week di Roma e penso anche altro. Rimane sempre valido invece continuare a scattare fotografia con gli amici di sempre e con nuovi amici che si uniscono di volta in volta nelle mie uscite fotografiche.

 

Quali tappe hai attraversato per diventare il fotografo che sei oggi?

Tantissimo studio, con tantissima umiltà. Nel passaggio dall’analogico al digitale mi sono anche radicalmente e totalmente rimesso in gioco, quasi come fossi ripartito completamente da zero. Ho accettato le critiche, anche severe, ma giuste. Esattamente come a scuola accettavo i giudizi degli insegnati per capire come migliorare e ottenere un rendimento sempre migliore, anche da chi non stimavo.

 

Che difficoltà hai incontrato lungo il tuo percorso?

Beh, le difficoltà maggiori le ho incontrate ma le incontro ancora di più oggi con tutti quelle persone che pensano la fotografia come unica soddisfazione del proprio ego. Con chi vuole solo sentirsi dire “bravo” e con chi fa della fotografia un mezzo per farsi dire “quanto sei bravo”. Per me la fotografia non è questo. Io non voglio che qualcuno dica “quanto è bravo il fotografo che ha scattato questa foto” mentre guarda una mia immagine. Io voglio che la gente dica “questa foto racconta”, “questa foto mi trasmette…”. io voglio che la gente veda, recepisca, venga coinvolta, rapita, assorba il messaggio contenuto nella mia foto.

 

Quali esperienze decisive hai avuto nell’ambito fotografico?

La prima esperienza alla quale devo tutta la mia passione è stato il mio primo lavoro. Torniamo indietro negli anni…. fine anni ’80 circa. Fui assunto in un laboratorio dell’Agfa e iniziai a lavorare nel mondo dei microfilm. Mi occupavo di fotografia analogica, quindi. E mi occupavo di documenti e opere d’arte da salvaguardare. Quindi ho avuto a che fare con manoscritti, fogli, dipinti, ma anche architetture, opere d’arte come statue e tanto altro da fotografare a scopo documentativo e conservativo. Ho dovuto quindi studiare la tecnica fotografica, ho avuto la fortuna di avere una camera oscura e imparare da chi lo faceva di mestiere da tantissimi anni. Questa esperienza mi ha garantito l’accesso ad esperienze e conoscenze uniche e fondamentali per quanto riguarda appunto la tecnica, ma anche la composizione e l’illuminazione.

 

Che cosa è necessario per poter cogliere l’attimo giusto?

Prima di tutto bisogna saper osservare e non smettere mai di farlo e di provare continuamente a farlo. Saper osservare e non solo vedere spesso ti permette di anticipare le mosse di tutto ciò che ti circonda.

 

Che rapporto cerchi di instaurare con le persone/soggetti che vuoi ritrarre?

Importante è mettere a proprio agio chiunque si trova ad avere a che fare con me. Dipende poi dalla situazione che sto affrontando se essere amichevole, professionale, distaccato o anche addirittura completamente invisibile ai più.

 

Cosa ha influenzato il tuo stile?

La fotografia analogica. Il fatto che non potevi fare prove e cestinare la foto guardandola su un display, ma dovevi aspettare tutto il processo di sviluppo prima di vedere il risultato, è stata una scuola fondamentale. Il fatto che l’elettronica di stabilizzatori e raffiche super efficienti non ci fossero è stato importantissimo per affinare la capacità di osservare e rendersi conto di ciò che ci circonda.

 

Quali sono i problemi che riscontri oggi nel fotografare?

Direi nessuno. Anzi oggi riesco a lasciarmi guidare dal mio stato d’animo, dalle emozioni, dalle situazioni facendomi aiutare dal supporto che mi offre la mia fotocamera.

 

Ci racconti un tuo aneddoto particolare o simpatico?

Certamente. Questo che sto per dire, e ammettere, lo dico sempre nei corsi e nei workshop. Io ero, quando nacque la fotografia digitale, uno di quelli che era convito che non avrebbe avuto futuro. Ero convinto che la qualità delle immagini fotografiche realizzate con la pellicola non potesse mai non solo essere superata, ma neanche avvicinata da qualcosa del genere. Nei primi anni 2000 lavoravo in HP, e venne costituito il settore Digital Imaging. Mi fu data l’opportunità di effettuare un reportage al seguito di una tribù berbera nel deserto del Sahara e mi venne affidata una fotocamera digitale…. Aveva ben 2,1 mega pixel e una scheda di memoria di 16MB che potevano contenere circa 400 fotografie digitali. Al mio ritorno riposi la Minolta Dynax5 35mm in un cassetto e da allora non ho mai più smesso di scattare con una fotocamera digitale.

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